Filmopoli, la lunga ombra dei fondi pubblici, dai film fantasma ai flop al botteghino perché quei milioni farebbero meglio alla cultura dal basso
Numeri, nomi e flop di un sistema che brucia centinaia di milioni, mentre pochi privilegiati incassano senza restituire pubblico e cultura. Intanto la cultura diffusa resta ai margini, esclusa dai finanziamenti: serve un riequilibrio profondo

Giulio Carnevale Bonino Direttore di Dossier Cultura
Un terremoto chiamato Filmopoli
Lo scandalo esploso attorno a Francis Kaufmann – alias Rexal Ford – ha tolto il velo su un sistema che, negli ultimi anni, ha distribuito centinaia di milioni di euro a produzioni cinematografiche, spesso senza alcun ritorno culturale o economico. Per il suo inesistente Stelle della notte l’ex regista ha incassato 863 mila euro di tax credit senza girare un solo ciak. Non è un episodio isolato: decine di pellicole prodotte da piccole società hanno ricevuto soldi pubblici e, fra tutte, quella che ha incassato di più ha raccolto poco più di 30 mila euro.
I numeri dei flop al botteghino
Le distorsioni riguardano anche opere regolarmente completate. Prima di andare via ha ottenuto 700 mila euro di contributi e venduto 29 biglietti – meno di 200 euro di incasso totale. Accattaroma ne ha incassati tremila dopo aver ricevuto oltre 200 mila euro. Sono solo due titoli di una lunga lista di film che bruciano soldi pubblici senza incontrare il pubblico. Con un modello così, il rischio d’impresa scompare: a perdere sono i contribuenti.
Eppure i soldi arrivano puntuali, spesso alle stesse società e alle stesse figure. Alcuni attori simbolo del cinema impegnato ricevono fondi milionari per film che, poi, al cinema non vanno o si rivelano disastri al botteghino. Manca il pubblico, mancano risultati, ma non mancano i finanziamenti.
Un patrimonio culturale dal basso senza voce
Mentre l’élite di produttori continua a drenare risorse, l’Italia pullula di cultura diffusa. Esistono decine di migliaia di associazioni impegnate in attività culturali e artistiche. Parrocchie che organizzano rassegne corali, circoli di provincia che fanno micro-festival letterari, band giovanili che animano le piazze: sono queste realtà, capillari e resilienti, a portare cultura dove il grande mercato stenta ad arrivare.
Sono loro, ogni giorno, a creare spettacoli teatrali, concerti, laboratori, mostre, performance. Senza budget, senza coperture, spesso in spazi improvvisati. Queste realtà producono migliaia di eventi ogni anno, molto più vicini alla vita reale dei cittadini che certi film "d’autore" pensati solo per festival e premi autoreferenziali.
Perché i soldi pubblici servono alla creatività diffusa
Con una frazione dei milioni riservati al cinema "ufficiale" si potrebbero finanziare residenze artistiche nelle aree interne, sostenere festival locali, garantire laboratori nelle scuole, creare circuiti di distribuzione per i piccoli progetti indipendenti. Si potrebbe finalmente restituire dignità a tutti quegli artisti e operatori culturali che non godono di amicizie, appoggi o visibilità ministeriale.
La cultura non si fa solo a Roma, né si esaurisce nelle sale d’essai della Capitale o nelle retrovie della Mostra di Venezia. Si fa a Lodi, a Vibo Valentia, a Guspini. In tutti quei luoghi dove un gruppo di giovani decide di mettere in piedi una compagnia, dove una biblioteca comunale diventa presidio di bellezza e partecipazione.
Dal tax credit al merito
Il decreto annunciato dal ministro della Cultura prevede più controlli: tracciabilità dei fondi, copia definitiva dell’opera, verifica fiscale. È un primo passo, ma serve molto di più:
- Premialità post-incasso: il credito si liquida solo se il film raggiunge un quorum di spettatori reali.
- Quota “community”: almeno il 30 % dei fondi destinati a produzioni che collaborano con scuole, associazioni, spazi di prossimità.
- Open data culturale: ogni euro deve essere tracciabile online, con obbligo di trasparenza su risultati ottenuti.
- Micro-grant territoriali: bandi semplici per progetti artistici dal basso, con fondi accessibili anche a chi non ha uffici romani.
Filmopoli ha messo a nudo il paradosso di un Paese in cui la cultura delle élite è iper-finanziata, mentre quella popolare sopravvive con la colletta. Se vogliamo che il cinema torni ad essere arte e non solo contabilità, dobbiamo invertire la rotta: meno sussidi per film invisibili, più risorse per la rete viva e autentica dell’Italia creativa. Lì dove l’arte esiste davvero, dove non servono effetti speciali per far battere il cuore di una comunità.
Giulio CarnevaleVolti e firme del cinema impegnato finanziato dallo Stato
Elio Germano – l’attore simbolo
Ritenuto una delle voci più forti del cinema d’autore italiano, Elio Germano è protagonista di numerosi film a tema sociale, spesso sostenuti con fondi pubblici. Opere acclamate dalla critica, ma raramente accompagnate da un successo di pubblico. In totale, si stima che i film da lui interpretati abbiano ottenuto oltre 17 milioni di euro in contributi statali, con incassi complessivi decisamente inferiori. Film come Favolacce o N-Ego hanno avuto costi di produzione sostenuti dallo Stato, ma sono stati pressoché ignorati dal pubblico in sala.
Paolo Virzì – l’autore delle crisi contemporanee
Con uno stile inconfondibile, Virzì ha raccontato crisi sociali e umane del nostro tempo. Il suo film Siccità, ad esempio, ha ricevuto finanziamenti pubblici sostanziosi, ma gli incassi sono stati molto inferiori rispetto alle aspettative. Un’opera dal grande impianto produttivo, che però non ha saputo attrarre il pubblico pagante, confermando quanto sia fragile il rapporto tra arte e sostenibilità economica.
Nanni Moretti – il veterano del cinema d’autore
Da decenni considerato una colonna portante del cinema italiano impegnato, Moretti ha ottenuto milioni di euro in tax credit per i suoi ultimi lavori. Il sol dell’avvenire, ad esempio, ha goduto di contributi statali che hanno quasi eguagliato gli incassi. Ma il bilancio resta in equilibrio precario, anche considerando che le spese di promozione e distribuzione sono spesso a carico della collettività.
Emanuele Crialese – il cantore dell’identità
Le sue storie intime, spesso legate a migrazione, identità e famiglia, hanno raccolto ampi consensi e importanti riconoscimenti. L’immensità, interpretato da Penélope Cruz, è stato uno dei film più sostenuti dal fondo statale, ma con risultati commerciali piuttosto deludenti. Anche in questo caso, il valore culturale dell’opera è indubbio, ma resta l’interrogativo sulla tenuta economica.
Alice Rohrwacher – l’alchimista del cinema rurale
Amata dai festival internazionali, Rohrwacher ha costruito un immaginario unico, sospeso tra fiaba e denuncia sociale. Le sue produzioni, però, sono spesso sorrette in modo quasi esclusivo dai fondi pubblici, con incassi modesti rispetto ai costi. La sua ultima opera, La chimera, ha confermato la tendenza: molto apprezzata dalla critica, ma poco vista dal grande pubblico.
Matteo Garrone – tra denuncia e poesia
Con Io capitano ha raccontato in modo potente il tema dell’immigrazione. Un film che ha avuto una buona tenuta al botteghino, ma che ha comunque richiesto un investimento pubblico superiore ai suoi incassi. È forse uno dei pochi casi in cui l’equilibrio tra valore artistico e ritorno economico si avvicina, ma resta un esempio isolato in un sistema ancora molto squilibrato.
Marco Bellocchio – l’istituzione
Il suo cinema affronta le grandi ferite italiane, tra religione, Stato e memoria storica. Le sue opere, finanziate con cifre elevate, sono prodotti di alta qualità ma che faticano a raggiungere il grande pubblico. Rapito, il suo ultimo lavoro, ha ricevuto quasi 5 milioni di euro in fondi pubblici, con incassi al di sotto della soglia di sostenibilità economica.
Questi nomi rappresentano una parte importante del patrimonio cinematografico italiano. Le loro opere arricchiscono il panorama culturale, vincono premi, vengono selezionate nei festival di mezzo mondo. Ma il punto critico resta uno: senza il sostegno dello Stato, molti di questi film non esisterebbero. E senza un ritorno adeguato in termini di pubblico, ci si chiede fino a che punto sia giusto continuare a finanziare un sistema che tende a essere autoreferenziale. Intanto, migliaia di artisti, compagnie teatrali, associazioni culturali e piccoli festival – che operano ogni giorno nei quartieri, nei paesi e nelle periferie – restano ai margini, esclusi da circuiti di finanziamento che privilegiano pochi e sempre gli stessi. Se vogliamo davvero che la cultura sia di tutti e per tutti, serve un riequilibrio serio e profondo.
Giulio Carnevale