Grande Guerra, una memoria senza retorica

Il primo ricordo della grande guerra, per me, è un 24 maggio lontano degli anni settanta: lo sguardo duro del nonno, socialista della prima ora ai tempi delle leghe, antifascista nel ventennio, artigliere della grande guerra, davanti ai giovani extraparlamentari che avevano scelto quel giorno, per lui ancora sacro, di bruciare il tricolore in piazza Duomo.

Della grande guerra, oggi, ogni comune d’Italia ha un ricordo. Dei monumenti e delle scritte a metà fra il retorico e l’assurdo (per esempio a casa mia: chi per la Patria muore vissuto ha assai…) e tanti nomi incisi. I caduti delle guerre mondiali, troppi, esagerati per molti piccoli borghia agricoli sparsi qua e là, d’altra parte, molti dimenticano che il nostro esercito fu essenzialmente composto da contadini e studenti, i famosi sottufficiali di complemento..
Quei nomi, sui monumenti, sono ombre che continuano a lasciare le poche abitazioni, le ville borghesi e le cascine dei nostri posti per andare là, al confine, a morire. Ecco, seguire quei dialetti diventare lingua italiana nelle trincee, raccontare il prima e il dopo, narrare da dove ogni nome è partito, da cosa, e dove è arrivato, seguire i cammini è la concezione della storia che oggi manca. Bisogna capire che quelle persone non sono soggetti da fiction ma gente vera, di cui ancora possiamo leggere sentimenti ed emozioni..
" Cari genitori, scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire. Non ne posso fare a meno. Il pericolo è grave, imminente. Avrei rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che odio la retorica... No, no, non è retorica quella che sto facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole; sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa, ma orrenda. Fra cinque ore qui sarà un inferno. Fremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa e rombi e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in questo istante medesimo sento in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove. Vorrei dirvi tante cose... tante.... ma Voi ve l’immaginate. Vi amo tutti, tutti.... Darei un tesoro per potervi rivedere... Ma non posso... Il mio cieco destino non vuole. Penso in queste ultime ore di calma apparente, a te, Papà, a te, Mamma, che occupate il primo posto nel mio cuore; a te, Beppe, fanciullo innocente, a te, Nina...Che debbo dire? Mi manca la parola: un cozzar di idee, una ridda di lieti e di tristi fantasmi, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione... No, No, non è paura. Io non ho paura! Mi sento commosso, pensando a Voi, a quanto lascio, ma so di mostrarmi forte dinanzi ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anch’essi hanno un morale elevatissimo. Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete. Siate forti come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il mio nome resti scolpito nell’animo dei miei fratelli; il mio abito militare, la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa. O genitori, parlate, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratellini, di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro do me; sforzatevi di risvegliare in loro il ricordo di me... Che è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi... Fra dieci, vent’anni forse non sapranno più d’avermi avuto fratello...
Il vostro Adolfo

Tenente Adolfo Ferrero, piemontese. Italiano.
Adolfo Ferrero. 20 anni.
Qualche ora dopo quella lettera, dilaniato sull’Ortigara.
Uno dei 700.000 italiani che dopo gli anni balordi tra il 1915 e il 1918 non ci sono stati più.
Uno dei milioni, perché non ha più senso chiamare tutte le vittime italiani o austroungarici, nemici o amici.
La lettera di Adolfo Ferrero è al sacrario di Asiago. Fu trovata venti anni dopo, sulla salma dell’attendente a cui era stata affidata (si usava così, passare i saluti estremi agli altri, nella speranza che almeno uno si salvasse…).
Vedere e leggere quella lettera ingiallita è fare della storia memoria del presente…
Provate,  a rileggere un classico della letteratura italiana come “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, e magari, in qualche week end, se ci riuscite, fate un giro all’altopiano di Asiago, si mangia anche bene, con un pomeriggio sul Monte Zebio, dove il libro è ambientato, o sull’Ortigara, tra le rocce dove il ventenne Ferrero è sparito.
Perché lassù, tutto è come era,  dimostrazione che per fortuna c’è una memoria più grande di quella degli uomini, quella dei posti.
La memoria vera, quella della gente, delle storie di famiglia, lontana dalle fanfaronate dei 4 novembre, i tricolori finti dei Fori Imperiali, magari anche lontana dai soliti discorsi.
Tante volte, oggi, ricordare è solo fare rumore. Celebrare, dir parole inutili sulla storia, tutta la storia, è in fondo il modo migliore per dimenticare che là c’erano degli innocenti ma anche dei carnefici. Quello dei buoni soldati o quello dei cattivi generali, sono ruoli diversi che non andrebbero accomunati, mai.
La grande guerra, il centenario, oggi dovrebbero essere un ciao ed un ricordo ad ogni Adolfo Ferrero e a tutti gli Adolfo Ferrero della grande guerra, della seconda grande guerra e a quelli di tutte le guerre, comprese quelle di oggi, sperando in un’Italia che ogni tanto si ricordi di loro come persone veramente esistite, uomini che hanno fatto la storia scrivendola come un dovere e un sacrificio. Probabilmente quei ventenni speravano in un futuro diverso rispetto al nostro. Adesso siamo arrivati qui, ad una crisi da cui speriamo di ricominciare. Ecco, proviamo magari a  ripartire anche un po’ da tutte quelle speranze disilluse, magari aiuta……

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